ISOZERO – Interview

Efrem Raimondi - ISOZERO MAGAZINE

Los Angeles, August 2014.

Claude Fisher – ISOZERO: Buongiorno Efrem, prima cosa, grazie di essere qui: come stai?
E.R: Meravigliosamente! Non ci penso.
Ottimo, ma ci riesci?
Con un po’ di esercizio sì. Non pensare sta diventando la mia condizione abituale…
Cos’è, una battuta? Non si direbbe guardando il tuo lavoro.
Ti confesso che è soprattutto al mio lavoro, al fotografare, che non penso. E comunque più in generale, non penso.
Perché se dovessi pensare non fotograferei più. Non è più tempo.
Farei altro… chessò, il rivoluzionario o comunque un lavoro socialmente utile. Invece non pensare mi consente di fotografare.
Che per me è ancora il miglior escamotage per evitare il peggio.

A Los Angeles siamo diretti: vuoi un caffè?
Se poi posso fumare, sì volentieri…
Sono spiacente ma questo non è possibile… mi spiace davvero molto.
Allora sì, lo prendo. Sai com’è, a Milano siamo indiretti…
Molto bene: latte, zucchero?
Assolutamente niente, grazie.
Dieta? – ride.
Ti sembro ciccione? No… anzi, voglio morire grasso. Semplicemente il caffè mi piace liscio. Lo zucchero lo aggiungo se mi fa schifo… Mi piace l’incipit di questa intervista. Dico davvero. Isozero è una rivista che amo proprio per la sua autenticità: che tu mi confermi.

Ok, veniamo alla prima domanda: ti sei definito più volte un outsider e qui in U.S.A. è un genere molto apprezzato. Ci dici qualcosa a riguardo? Perché saresti un outsider?
Perché non ho fatto alcuna scuola, non ho fatto l’assistente… non ho mai fatto niente. Niente che in qualche modo avrebbe potuto aiutarmi a crescere dandomi degli strumenti concreti. Che sono invece importanti e fanno risparmiare un sacco di tempo. Oltre al fatto che ti permettono di conoscere un po’ di persone… e sai com’è, le conoscenze aiutano. Io invece no.
E quindi cos’hai fatto? Quando hai deciso di fare fotografia e diventare fotografo?
In un certo modo fotografi si nasce… a quattro anni sfogliavo Popular Photography, alla quale mio padre era abbonato. A sei, sette anni mi capitava di accompagnarlo per circoli fotografici e per mostre… sono stato più volte con lui al Jamaica, nel cuore di Brera, quartiere artistico per eccellenza di Milano, dove incontravi Ugo Mulas, Bruno Cassinari, Piero Manzoni, Alfa Castaldi… un locale che era stato abitualmente frequentato da gente come Ungaretti… che nei ’70 era quasi dimora per Allen Ginsberg… E c’erano un sacco di operai, perché quello era un quartiere operaio: chi cazzo ci va adesso al Jamaica?!

Che sigarette fumi?
Lucky Strike…
Me ne offri una?
Con vero piacere! Lo sai che il fumo fa male?
A Los Angeles? Ma non mi chiedi come mai ne chiedo una?
Nnno… non mi piace mettere in imbarazzo le persone. Tu me l’hai chiesta, io te la do. Ma nessuno dice nulla se fumiamo qui dentro?
Ma qui si fuma abitualmente – ride. Si va sul tetto, almeno in due: non è consigliato andarci da soli… l’ascensore può riservare una compagnia non molto attraente – ride. Però ci sono le eccezioni. Anche a Los Angeles, cosa credi? In questo ufficio ogni tanto succede. Ti chiederai come mai prima ho detto che non era possibile…
No. In ogni caso anche outsider si nasce. Tra la fine dell’80 e l’inizio dell’81 feci due reportage. Ero un ragazzo con una voce fuori dal coro, ma non fu un fatto volontario: ero realmente così. Eppure quei due lavori mi convinsero che la fotografia sarebbe stata la mia vita. Cominciai a bussare a tutte le redazioni che ritenevo interessanti. E ce n’erano parecchie… la fotografia italiana ha radici nell’ambiente amatoriale degli anni ’50 e ’60… un luogo davvero ricco di talenti autentici. Alcuni si sono imposti altri no. Ma comunque il confronto era con una fotografia di alto livello espressivo. E le riviste intercettavano questo talento dandogli degli argini certi. Evitando dispersione…
Adesso per favore chiedimi cos’è il talento…

LOS ANGELES by Efrem Raimondi

Scusami, quali magazine?
Diversi e ognuno con l’intenzione dichiarata di mettere al centro la fotografia. Ne cito due per tutti e che mi riguardano direttamente: PM e INTERNI… il primo fortemente italiano, di attualità, il secondo con un taglio inevitabilmente internazionale visto che è di design che si occupava, e si occupa dato che per fortuna c’è ancora.
Ma lo sai che è capitato di ricevere lettere – mica c’era Internet – in redazione a Interni?
A seguito di un redazionale o di un numero particolarmente denso. Anche da qui, dagli U.S.A.

Quindi parlo non di magazine che si occupavano di fotografia, ma di quelli che la fotografia la producevano davvero. Pensa a Lotus, la conosci?
Ce ne ha parlato Francesca Solincielo, il nostro occhio italiano in redazione…
C’è ancora, con una formula editoriale diversa. Be’, ci pubblicavano regolarmente Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella…
li conosci?
Conosco Luigi Ghirri e Gabriele Basilico… Conosco Giacomelli e Ugo Mulas. E conosco anche il lavoro di Giuseppe Cavalli. Francesca dice che in Italia non è molto conosciuto: mi sembra impossibile.
Giuseppe Cavalli? Tu conosci Giuseppe Cavalli? Un grandissimo!
Ma Francesca ha ragione: a parte alcuni addetti ai lavori e i critici di professione, è semisconosciuto.
Scusami, tu quanti anni hai?
Trentaquattro…
Bene, ognuno ha l’età che si merita. Io ne ho tremiladuecento, circa, e non ho un presente.
Siamo un popolo senza presente noi italiani, per questo usiamo quello degli altri.
Chi ci conosce? A parte i nomi che hai fatto, chi ci conosce?
E anche qui ci sono delle responsabilità, anche di noi fotografi. E del concetto di mamma che abbiamo. Perché in Italia la mamma è un concetto.
La propria. Quella degli altri a volte è solo troia. E anche questo è un concetto.
Guarda, quanto a concettuale non c’è popolo al mondo che ci batta…
Voi e quella invenzione paracula che avete chiamato Pop Art…
Comunque… io ero un pischello che spingeva, ma ciò che guardavo, il mio parametro era di questo livello: quei fotografi lì, quelle riviste lì, quelle mostre lì. E un là, quello che arrivava oltre confine ma non si viveva come un prodotto di importazione. Non era cioè qualcosa di estraneo e inoculante: se ne percepiva chiaramente il background, la specificità locale. E questo garantiva dialettica e confronto: stimoli! crescita!
Vuoi mettere la pappetta preconfezionata con tanto di visto internazionale? Quella roba che parla un linguaggio passepartout che non ha un microbo. E senza microbi, muori.

Non credi ci sia un linguaggio internazionale?
C’è una convenzione espressiva internazionale ridotta ai minimi termini, per un mercato del pensiero unico e globalizzato. Non è un linguaggio, è un paralinguaggio, è un business. E il metronomo lo caricate voi.
Noi, tutti noi resto del mondo, balliamo al ritmo della vostra musica. Noi ci ingoiamo Miley Cyrus e Terry Richardson. E al massimo produciamo epigoni. Proprio perché non usiamo più il linguaggio. Che è un elemento distintivo che garantisce la dialettica, lo scambio… se tutti parlassimo nello stesso modo non ci sarebbe più espressione.
Mi chiedi cos’è il talento, per favore?
Capisco. Siamo degli imperialisti schifosi… è questo che dici, no?
Io credo che la fotografia sia in grado di superare molte barriere linguistiche e in questo è un grande strumento di comunicazione immediata. Diretta e veramente trasversale… come si dice? Una fotografia vale più di mille parole!
Dipende quale fotografia e quali parole. Non mi piacciono le generalizzazioni, producono il conformismo al quale aggrapparsi per insultare qualsiasi divergenza. Mentre è proprio nella divergenza, è nella contraddizione che risiede l’origine del linguaggio.
Non dico che siete degli imperialisti schifosi… dico che avete industrializzato un metodo di esportazione culturale che non prevede emersione del contraddittorio. Del resto se no come avreste fatto a competere col sistema dell’arte che vi ha preceduto? La Pop Art è stato il vostro Cavallo di Troia. Un cavallo chiassoso, con finimenti e bardature spaccone degne di un circo. Avete appeso il silenzio hopperiano nei vostri musei dopo averlo celebrato il minimo per potercelo mettere su quelle pareti, e siete partiti col carrarmato Warhol.
Mi chiedo come facciano taluni tanti, a sostenere che Edward Hopper sia stato il precursore della Pop Art… lui, che diceva robe tipo “Non dipingo quello che vedo ma quello che provo”.
Semmai è stato il precursore di tanta fotografia e cinema. E non mi riferisco all’operazione di Richard Tuschman, della quale francamente non capisco la necessità.

Interessante, quindi outsider
Hai detto che qui l’outsider è molto apprezzato… e certamente è stato così. Non so adesso… 
Se proprio devo dirla tutta, outsider definisce anche una posizione culturale. Quella che aspira al superamento del trend e delle certezze pontificate. Francamente è la condizione che consiglierei a un giovane fotografo: chiudere gli occhi e estraniarsi da questo insopportabile rumore digitale che ammorba l’aria… Ezechiele 25:17

Pulp Fiction!
Esatto. Lo citano tutti, lo faccio anch’io.
Rumore… digitale versus analogico? I fotografi della tua generazione, quelli che abbiamo incontrato, hanno opinioni discordanti a riguardo: tu che ne pensi?
Bene… chi usa astrazioni a riguardo fa solo demagogia.
Per garantirsi un po’ di luce mediatica. Una marea di gente a diverso titolo si esprime su questo falso dualismo. Mistificante direi. I più violenti, in genere, sono i digitalisti. Perché sanno perfettamente che se per uno scherzo diabolico il digitale sparisse così, d’emblée, non sarebbero in grado di fare più un cazzo. A me non frega niente della diatriba, a me interessa solo il risultato, cioè la fotografia che ho di fronte. E giusto per chiarire, uso il digitale ormai nella stragrande maggioranza dei casi. Perché è comodo e io sono pigro.
Però è stato come Hiroshima. Per cui si abbia la cortesia di non chiedermi di amarlo. Lo uso e stop.

Mi sembra che tu esprima un certo disprezzo. E con la postproduzione che rapporto hai?
Non disprezzo. Il digitale è ineludibile. E non si può essere rancorosi nei confronti degli strumenti che usi. Annoto solo che della pellicola mi manca il volume. E quella leggera scia sporca che i cristalli di alogenuro d’argento custodivano gelosamente. Quei cristalli se trattati con affetto partecipavano alla tua cifra espressiva. C’è più personalità in una pellicola. Tutto qui.
In parte la poca postproduzione che faccio mi serve per recuperare un po’ di quella  personalità. Voglio però dire una cosa molto chiara: la postproduzione c’è sempre stata. Non è patrimonio esclusivo del digitale.
Dalla manipolazione dello sviluppo della pellicola a quella della stampa: il computer ha solo sostituito la camera oscura.
La questione semmai è quale postproduzione.

Quale postproduzione?
Quella che non espone al ridicolo, al comico a volte.
Quella che ha un motivo preciso e non è volgarmente protagonista.
Quella che non si droga di perfezione, e che non perde mai di vista l’insieme: ogni fotografia non è la somma di particolari perfetti.
Ma un unicum da prendere in blocco. Il suo equilibrio riguarda la dialettica degli elementi che la compongono. Un equilibrio che puoi spingere fino alla precarietà assoluta. Fino all’estremo. Fin lì e basta. Poi precipita tutto in un attimo. E non c’è nulla che possa salvarti.
Ci troviamo di fronte a una vera e propria emorragia di cattivo gusto. Dove la singola fotografia altro non è che il supporto geometrico per degli esercizietti più o meno audaci.
Questione seria questa qua. Al punto che nella maggior parte dei casi potremmo saltare la voce “fotografia” e passare direttamente alla voce “postproduzione”… che ce ne facciamo della fotografia?
E le fotografie diventano solo il media per una visione postprodotta talmente alterata da essere trash. Gran fumettoni e via andare.
Visione alterata… cioè tu insisti per un una visione comunque legata alla realtà? Il mondo però cambia e ogni epoca ha il proprio modo di rappresentarsi… si inventano nuovi linguaggi e mai come oggi il legame con la tecnologia produce espressione e in certi casi addirittura la determina. Non penso che ancorarsi al passato sia una soluzione. E anche il gusto, scusami, cambia.
Non è questione di passato e di presente…
C’è una fotografia transitoria legata al costume e questa non solo c’è sempre stata ma mi interessa in quanto rappresentazione di un’epoca. O per dirla alla contemporanea, legata a un periodo.
Che è però sempre più breve perché determinato dalla necessità del consumo, tanto e speedy. I cui tempi non prevedono più neanche lo stomaco: ingoi e caghi. Peccato, perché ti fotti il sorriso.
A me una fotografia da fast food non interessa.
Ritengo che il linguaggio, qualunque sia, debba essere alto.
O comunque tentarci.
E solo le avanguardie sono in grado di esprimerlo compiutamente.
Perché solo le avanguardie sanno manipolare le nuove tecnologie, sanno davvero usarle senza essere usate. Da questo dipende il cambiamento che davvero mi auspico con tutto il cuore. E il po’ di cervello che mi resta.

Ritieni di essere un’avanguardia?
Ma figurati! Io non ritengo niente per ciò che mi riguarda, io mi limito a respirare e a guardarmi attorno.
E se anche il respirare è un fatto automatico, a volte sarebbe bene romperne il ritmo e inspirare profondamente. Questo è l’unico momento in cui si ha coscienza di cosa sia il respiro.
Questa è l’urgenza della fotografia adesso: fermarsi e inspirare.
Perché quello che sta vivendo è un’apnea.
C’è… è viva. Oltre le macerie di fotografie, c’è una fotografia che riflette… ci sono giovani che hanno molto chiaro come organizzare il proprio talento. Anche loro in apnea, ma hanno preso il boccaglio: la condivisione. E i collettivi possono davvero essere il luogo ideale per un’avanguardia. L’epoca di Lancillotto e Mandrake è finita. Io non ci credevo nemmeno prima, figurati!
Una fotografia collettiva?
Sì. Una fotografia che esprima con assoluta chiarezza da che parte sta ogni volta che si espone: propositiva o mediatica? Contraddittoria o accondiscendente?
Perché sono due sponde diverse.
Ciò che vediamo a livello social, di iconografico intendo, non è condivisione ma solo accumulo di fotografie. Lì, sparse come i coriandoli, che galleggiano per aria per pochi secondi e appena dopo precipitano a terra. Soprattutto oggi, noi tutti avremmo bisogno di bombardieri, altro che democrazia digitale!

La copertina di questo numero di Isozero l’abbiamo scelta insieme…
Era in lizza col ritratto di Philippe Starck, altro bianco e nero, ma molto ben impacchettato: l’ago della bilancia è dipeso da te alla fine, perché questa scelta?
In fondo non sono così estranee… sempre di pacco si parla – risata.
La mutanda è una Polaroid del ’93, ero ancora nel bel mezzo del rigore da banco ottico, nel mio caso comunque un po’ sporco… e la Polaroid era il modo per evadere da una certa staticità ineludibile.
Ho sempre amato gli estremi, e rimbalzare dal banco alla sx-70 era per me come passare da una marina all’Everest, il tutto in un attimo, il tempo di allungare la mano e prendere lo strumento meno mediato possibile rispetto al precedente. In fondo era come accorgersi, nello scarto, del respiro di cui si diceva prima.
Questo rimbalzo è stato ed è tuttora fonte di ossigenazione per il mio cranio: non è vero che lo strumento è indifferente, perché ognuno ha delle specificità proprie. La differenza la fa la tua capacità di relazione, e più è dialettica, meno subisci i limiti e più diventi la fotografia che fai.
Questa immagine fa parte della serie Appunti per un viaggio che non ricordo, un lavoro in progress sul tema dell’allucinazione e della percezione. Un lavoro sul dubbio e l’incertezza. Rigorosamente in formato quadrato. Credevo fosse finito con il decesso Polaroid.
Poi sono arrivati Instagram e lo smartphone. Forse posso riprenderlo.
Forse…
Ma scusa, è stata ripresa la produzione: Impossible Project, che rappresenta la continuità Polaroid…
Provata. Quando mi avviseranno che è cambiata la riprovo.
Al momento non ho echi. Mi dicono che però sono ecologiche.
E chi se ne frega.
Te ne freghi dell’ecologia?
Proprio per niente! Solo non può essere usata come un alibi.
Che poi, visto il costo di ogni confezione, rigorosamente da otto, e visto il consumo ben più che doppio dato che vai per approssimazione empirica e comunque non è detto, mi spieghi cosa c’è di realmente ecologico?
Non ho nessun preconcetto nei confronti di Impossible Project, e infatti resto in fiduciosa attesa. Nel frattempo sono anche più ecologico e uso l’iPhone, se questo è il parametro.
Torniamo alla mutanda: cos’è realmente?
È una Cagi. Le mutande che portavo allora. Le adoravo… tutto era a suo agio.
Ne sono lieto, ma a parte questo dettaglio che eviterei di approfondire, è la metafora di cosa? E torniamo quindi alla domanda: perché questa scelta?
Comincio a pensare che la motivazione, tua e mia, non coincida…
Dico la mia: non è la metafora di niente ma solo le mie mutande appese. Una mutanda che incorna, con quelle due mollette messe lì. Questa è l’unica concessione che posso fare. Potrebbero essere di chiunque e sarebbe comunque un fatto intimo. Credo che l’esposizione delle mutande sia più osé di un nudo quanto a svelare intimità. Il fatto che siano le mie rende l’immagine più intima. Ma la fotografia in sé non denuncia la proprietà dell’oggetto.
Per comunicarlo dovrei scrivere una nota, o intitolarla Le mie mutande. C’è del feticismo in ciò? Non lo so. Può anche darsi, ma saperlo e capirne le ragioni non mi riguarda.
All’occorrenza posso anche argomentare la fotografia che faccio, ma non le fotografie. Che non hanno bisogno di me. E anzi è meglio che mi stiano più alla larga possibile per la salute di entrambi. Creandole, ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità per renderle autonome. Il mio compito si esaurisce lì. I commenti e le spiegazioni… i messaggi ecc appartengono agli altri. Io non ho messaggi e tutto si esaurisce con un mi piace o no.
Visto che è qui, in bella cover, mi piace. E a te?
Certo che mi piace, diversamente non sarebbe appunto in bella cover. Ma aggiungo: è una fotografia tremula nella manifestazione ma forte nel segno, punk direi. E integralmente Polaroid.
Appesa. A cosa? Non il filo, che è davvero solo lo strumento percepibile, quanto quel poco di vuoto apparente che la circonda. Questa è la domanda. E poi…
Il bello di una fotografia, è che ognuno può vederci quello che vuole. Non ci sono risposte univoche. Alcune possono essere condivise, ma la coincidenza è impossibile. E si aprono porte inaspettate. Ma tutto questo non è affare che riguarda l’autore. Non lo può riguardare perché le singole fotografie sono solo lo strumento per l’affermazione di una propria idea di fotografia. E di questo, se ne può parlare. Mi è certamente più congeniale. Perché uso un’astrazione. Quello che condivido, l’unica cosa di ciò che dici, è che la domanda è più importante della risposta. Anche perché io non do risposte. Pongo solo domande.
Nel 1990 feci una personale nella più importante galleria fotografica italiana, e una delle più importanti d’Europa, Il Diaframma.
Si intitolava Ritratti. Ed era un lavoro col quale sostenevo la tesi dell’autoritratto, il self portait applicato a qualsiasi soggetto stessi ritraendo. Non sto a tediare… In più avevo scritto quattro righe intorno al tema della specializzazione in fotografia, che trovavo un fatto puramente utile per una collocazione, sia commerciale che critica, ma assolutamente inutile e anzi dannosa per il fotografo, quello che almeno intende davvero usare la fotografia come linguaggio: nulla è più deputato di altri a diventare soggetto.
Il soggetto è solo il pretesto per raccontare liberamente di sé.
A me sembrava ovvio, invece venni anche contestato per queste affermazioni.
Quasi immaginando certe reazioni, esposi anche un mio autoritratto in mutande, calzoni calati. Che adesso ti faccio vedere.

Efrem Raimondi, self portrait, 1990

C’era anche una didascalia, ed era l’unica fotografia esposta ad averla: Titolare dal 1963. O ’64, non ricordo cosa diavolo avevo scritto.
E faceva il verso a una campagna dell’American Express.
Solo che io mi sentivo titolare solo delle mie Cagi.
Come vedi, evidentemente certe immagini, solo alcune, hanno poi una maturazione. Questo per me è il senso di questa Polaroid: l’evoluzione sul tema delle mie mutande. Stop.
Questa è un’immagine che hai realmente esposto in una personale?
Sure! Te la faccio io una domanda… cos’è Isozero? La seguo da un paio di anni. Non saprei dirti neanche se c’è un motivo preciso. So che la compro con grande piacere.
Dove la trovi in Italia?
Non so dirti altrove, ma a Milano la trovo da Milano Libri, che è un po’ un luogo di culto e di souvenir giovanili per me… ho cominciato a frequentarla che avevo i pantaloni corti e una Pentax K1000…
E lì c’è un banco con una serie di riviste internazionali esposte.
La trovo lì.
La prossima volta che vengo a Milano mi porti.
Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia. Anzi dico meglio: che si occupa di linguaggio. Una rivista trasversale senza pudore che nasce per essere cartacea. La versione Web è solo di lancio, pillole gratuite del numero in uscita.
Noi amiamo la carta. E la crisi dell’editoria non ci riguarda. E poi…
Ti dico una cosa, scusa l’interruzione: se avessi soldi veri, o un editore complice, investirei sul cartaceo. Proprio adesso che ‘sto mondo annaspa. Tutti a dire e ridire ma non conosco un solo fotografo, un solo artista, un solo critico, una sola galleria, che non ami la carta.
Ma sai, per noi il feedback è positivo. Ma siamo in una nicchia.
Io amo le nicchie. Non credo ci sia, oggi, altro luogo per esprimersi compiutamente.
Vero. O almeno noi ci crediamo visto che è in questo ambito che ci muoviamo. Ma è complesso e i problemi aumentano proporzionalmente col passare del tempo. A volte da un numero all’altro. E noi siamo un trimestrale, con l’ambizione di diventare bimestrale. Ma finché c’è carta e stampa, c’è speranza. E noi tiriamo avanti. Molto coerentemente  con l’idea, la filosofia direi, che ci riguarda sin dal numero zero: noi non informiamo, non esprimiamo opinioni… noi esprimiamo giudizi. Prendiamo posizione. Diciamo e pubblichiamo ciò che ci riguarda… e ciò che vedi quando compri l’ultimo numero alla Milano Libri, coincide con ciò che siamo.
A volte sembriamo contraddittori, e forse lo siamo anche. Ma siamo vivi e ci disinteressiamo del marketing strategico: non inseguiamo bisogni che non conosciamo per piazzare un medium a due dollari.
Noi siamo soltanto noi. E ci siamo accorti che ci sono altri noi.
Questo è Isozero. Un trimestrale inesistente che costa 15 dollari.

Chiarissimo. Netto direi.
Te lo chiedo in ginocchio, mi chiedi cos’è il talento?
Ma hai bisogno che te lo chieda?
Grazie per la domanda Claude. Claude… come mai un nome francese?

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Continua…

P.S.   Questa rivista è mia. Guai a chi me la tocca.
This magazine is mine. Hands off, please.

UPDATE DEL 22 OTTOBRE

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

UPDATE 26 FEBBRAIO 2020
In realtà un ISOZERO è nato: il mio laboratorio di fotografia, ISOZERO Lab.
Un percorso didattico che è proprio altro. Un po’ allineato con l’intervista. Ciao!

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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iDyssey – Stefano De Luigi


Che cos’è la condivisione?
Accettare senza alcuna remora e distinguo un soggetto che è altro, e rendere pubblico questo tuo stato.
Quando è giusta?
Quando sai che il patrimonio espressivo in questione ti riguarda.
Non è importante che il linguaggio coincida, ognuno ha il proprio.
Ciò che conta è il patrimonio. In qualche modo la matrice.
E questa sì, è un differenziale.

Conosco Stefano De Luigi da quando entrambi eravamo in Contrasto.
Lo stimo molto. Per il suo lavoro e per la persona che è.
Eppure non ci siamo visti tantissime volte. La matrice, appunto.
Nel suo lavoro io riconosco qualcosa che appartiene anche a me.
E voglio condividerlo.
Cominciando con un suo video, parte integrante di questo percorso, iDyssey, e prodotto dal New Yorker… tutto iPhone.

Stefano De Luigi - Efrem Raimondi Blog

iDyssey, sarà in mostra a Parigi il 30 ottobre.
Questo il link con tutte le informazioni, per chi, a sua volta, voglia condividerlo e sostenerlo.

Stefano De Luigi - Efrem Raimondi Blog

Vero… noi fotografi siamo individualisti. Ma non ciechi.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

David Chipperfield in Galicia. Report

David Chipperfield - Stefano Core by Efrem Raimondi

34 ore per un solo ritratto.
34 ore leggere.
Senza trambusto… come mi piace adesso, che un po’ di cose sono cambiate.
E io con loro.
34 ore in luce piena. Anche di notte. Perché la luce si sceglie.
Corrubedo, Galizia, Oceano mare – qualsiasi riferimento a Baricco è inopportuno.
David Chipperfield e Stefano Core, amministratore delegato di Driade.
Questo l’assignment di Grazia Casa, magazine Mondadori.
Ma già che c’ero…

Già che c’ero mi sono guardato attorno, e mentre guardavo scattavo. Un po’ con l’iPhone e un po’ con la Nikon… e questi sono gli unici due strumenti che avevo, estremamente accondiscendenti e rapidi. No computer, no generatori e flash. No assistenti: per come avevo pensato di lavorare ero di troppo anch’io.
Se si potesse ridurre tutto alla minima presenza si brucerebbero meno energie. Cioè meno ossigeno.
Questo è l’unico vantaggio immediato del digitale.
E col ritratto che da un po’ rifletto, è un vantaggio vero.
Non sempre possibile. Ma questa volta sì.
Per me è quasi come tornare all’origine, che mettevo dei rulli in un sacchetto di plastica e in tasca una compatta.
L’inconveniente era che non sembravo molto credibile quando arrivavo a destinazione… certe facce!
Forse anche adesso. Ma io non me ne accorgo e mi godo le facce che trovo.

Questo sembra un report… ma è più simile all’idea che ho di redazionale, sponda iconografica.
Un racconto breve di 34 ore impegnate per un solo ritratto.
Ma già che c’ero…

Madrid airport by Efrem Raimondi

Santiago de Compostela airport by Efrem RaimondiVigo airport by Efrem Raimondi

Santiago de Compostela - sky by Efrem RaimondiTre aereoporti: Madrid, Santiago de Compostela, Vigo… non quelli di Milano Malpensa e Milano Linate al ritorno, che non ci ho neanche pensato.
E un solo cielo, quello sopra Santiago mentre si atterrava nel giallo serale.
Non ero mai stato in Galizia… un verde totale. Ma proprio tanto.
Poi un’ora di macchina per arrivare a Corrubedo, in faccia all’Atlantico.
Ma se il mondo finiva alle Colonne d’Ercole, qui dov’era?
Mentre girovagavo per casa Chipperfield alla ricerca di un punto fotografico per il giorno dopo, me lo chiedevo… qui dov’era? E cos’era?
Una luce lunga, di quelle che sembrano non spegnersi mai…
In mezzo una snap a Stefano Core mentre David Chipperfield cucina una pasta alle sarde.

Corrubedo. Galicia. View from David Chipperfield's house, by Efrem Raimondi

Stefano Core by Efrem RaimondiCorrubedo. Galicia. View from David Chipperfield's house, by Efrem Raimondi

Il mattino dopo comincio con un’istantanea a Elisa Astori, direttore marketing Driade, e poi il motivo per cui sono qui, David Chipperfield e Stefano Core. Insieme. E una no.

Elisa Astori by Efrem Raimondi

David Chipperfield and Stefano Core by Efrem RaimondiDavid Chipperfield and Stefano Core by Efrem RaimondiDavid Chipperfield and Stefano Core by Efrem Raimondi

David Chipperfield by Efrem RaimondiAppena fatto questo ritratto singolo ho pensato che avevo finito.
34 ore. All-inclusive.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotografia in vacanza

Efrem Raimondi photo

Io resetto tutto e me ne vado.
Anzi, prima me ne vado, poi all’imbocco di un viale qualunque di qualsiasi agosto il mio cranio passa in ora legale.
E questa è la mia vacanza. Un tempo sospeso nel quale mi disintossico alimentando relativismo e distacco.
E una sola certezza: finché anche qui, qualsiasi qui sospeso, trovo il motivo della fotografia che mi riguarda, sono vivo.
Lo trovo anche in altri sguardi, mentre girovago tra social e blog, con un Internet non sempre accondiscendente.
Lo trovo in alcune, rare, immagini… e poi lo trovo, spalancato nella sua compostezza, in un Facebook post di Francesca Stella, fotografa e blogger:

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Verrà mai un giorno in cui si dovrà ammettere di aver detto tutto?
Come una fucilata.
Infatti scarso consenso e nessun applauso. Un commento uno, quasi imbarazzato, il mio. Che è giovane la fanciulla, perché si pone questa domanda adesso?
Ma è una domanda che chiunque abbia a che fare col linguaggio non può non essersi posto, anche distrattamente. Anche poi risbattuta a calci e insulti nello sgabuzzino da dove è venuta.
Che prevede però due cose: che tu abbia davvero detto qualcosa, e che lo stesso tu non abbia più niente da dire.
E che a questo punto te ne renda conto, ti inchini e ti appendi da qualche parte.
Perché di finire su un piedistallo mobile, supposto che te lo diano, avanti e ‘ndre per palcoscenici a sparare cazzate e aneddoti, equivarrebbe a una veglia funebre itinerante.
Ci tieni?

Una questione intima quella di avere o no ancora qualcosa da dire.
Che non riguarda il consenso, per quello spesso basta il mestiere, forse più di comunicatore/trice che di fotografo.
Riguarda solo te stesso e la certezza che non stai bluffando.
Qualsiasi strada è buona e io uso la vacanza estiva… le fotografie delle vacanze, sissignore.
Che non so perché siano così snobbate… ma quando mai hai così tanto tempo a disposizione per fotografare in santa pace, senza dover rendere conto a nessuno? Potendo persino scegliere la pubblica incomprensione: è la cartina di tornasole del tuo sguardo, che ti frega del resto del mondo? È allo specchio che ti stai riflettendo, e non c’è nessuno, nemmeno nascosto dietro la tenda alle tue spalle.
É di questo che ti devi convincere: non c’è nessuno.
E nessuna fotografia è mai stata fatta.
O sono state fatte tutte… la condizione è la stessa.
Non pensare… dai retta allo stomaco che insiste e ti chiede DI COSA HAI FAME?
Chiudi gli occhi. E poi scatta.
Se quando li apri non ti rifletti, sei arrivato e non c’è altro che tu possa aggiungere.
Appenditi.

Una vacanza per venti immagini.
Venti come capitano.
Venti che mi servono.
Più una dell’anno scorso, visto che è sempre Pinzolo, Valle Rendena, Trentino.
Che non c’è come misurare lo sguardo negli stessi luoghi.
Cos’è che non ho visto ieri e che invece oggi mi è evidente come una decalcomania?
Quest’una è perché ho un dubbio. E i dubbi li manifesto.
Succede. A me succede.
Quando non accadrà più, quando mi rifletterò in sole certezze mi appenderò anch’io.
Che tanto non avendo alcun piedistallo è più facile.
Garantito.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Efrem Raimondi photo

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f/64 – il blog di Francesca Stella
stella_2iPhone 4s e Nikon D800 – per la prima volta in vacanza…

Garfagnana Fotografia report

Efrem Raimondi in Garfagnana

 

La prima cosa che mi viene in mente è di ringraziare.
Un tranquillo, movimentato weekend a Castelnuovo di Garfagnana.
Un weekend di piacevole duro lavoro… che fotografare al confronto è uno scherzo.
Ma a me piacciono le situazioni dense. E meno, anzi per niente, le liquide… che somigliano a quelle circostanze in cui stringi delle mani molli, che scivolano via.
Se ti fermassi un attimo…
Una nota di attenzione per chi va in Garfagnana: non fidatevi delle bottiglie di minerale gassata, che hanno tentazioni suicide e vi si scaraventano addosso.
A me è successo più o meno a metà percorso della lectio magistralis. Che ho proseguito bagnato.
Non era una performance.
Le bottiglie di naturale invece non fanno niente e stanno al loro posto.
Lectio magistralis a parte, dove sembra abbia sostenuto l’inesistenza della fotografia, la cosa davvero interessante è stata la lettura portfolio.
Che non faccio spesso. Perché credo che alla lettura dovrebbe conseguire “fare il portfolio”. Dico sul serio.
Che è un lavoro, un lavoro vero e tosto. Perché ti dà in mano uno strumento che prima non avevi.
E impegna gli attori ben oltre la mezz’ora preposta… deadline invece ragionevole, e a volte generosa, nelle circostanze pubbliche. Com’è appunto questa del Portfolio dell’Ariosto, inserita nel circuito di Portfolio Italia. Che quest’anno ha assegnato il primo premio assoluto al lavoro Res(p)e(c)t di Sergio Carlesso e Nazzareno Berton.

Efrem Raimondi, lectio magistralis

La verità? Mi ha fatto un grande piacere!
Perché ho visto il lavoro di persone che non conosco. E che nella circostanza mi affidavano le loro foto: ci vuole coraggio!
E già questo è apprezzabile, visto che dalla mia lettura non dipende concretamente nulla. Forse. Dipende.
Ho visto anche il lavoro di persone che invece conosco mediate dalla rete… dai social o dal mio blog. E qui il mio piacere raddoppia perché, che ci si creda o no, vedersi è un modo comunque più ricco di interloquire. Che il sorriso è una roba, gli emoticon boh.
Ho visto solo persone interessanti e intelligentemente interessate, forse ho culo.
E poi ho visto anche qualche lavoro decisamente bello.
E comunque nell’insieme e nell’eterogeneità, di un livello medio che riconcilia la vista dall’impunità democratica dei social: la fotografia non è democratica.
Può esserlo un premio, la sua assegnazione, ma non la fotografia, che si misura con altri parametri.
L’unica cosa che ho visto solo raramente, è il rigore.
E non si scappa… è un fatto di disciplina: se stai presentando un portfolio esistono regole alle quali attenersi.
Anche nel fotografare c’è disciplina, e si riscontra in ciò che si vede, fosse anche allucinazione, che per darsi, ha bisogno di argini.
Comprenderlo è un passo successivo all’entusiasmo del mezzo espressivo, ma prima si comprende e prima si è in grado di esprimersi compiutamente. E forse è questo il vero contributo che una lettura può dare. In questa circostanza per me è stata la regola.
Non so se ci sono riuscito, non so se ne ho la capacità, ma questo è il mio sforzo.
Poi ho visto delle mostre, tutte interessanti. Ne cito una sola, perché testimonia la possibilità di fare del reportage senza toni melodrammatici. E in più, essendo un lavoro a sedici mani, è evidente la presenza di un editing accurato. Mi riferisco a  Prete Nostro, un percorso sui preti della Garfagnana, un lavoro a cura del Circolo Fotocine Garfagnana, che  è l’organizzatore di tutta la manifestazione Garfagnana Fotografia.

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Un circolo tosto, di gente che ama la fotografia e si dà da fare senza menarla. Presieduto da Pietro Guidugli con un risultato davvero eccellente: i miei complimenti!
La mia presenza qui la devo però essenzialmente a una persona, membro del circolo: Stefania Adami, che ringrazio di cuore.

E poi ho rivisto Stefano De Luigi, al quale è stato assegnato il premio Rodolfo Pucci.
C’era una sua mostra esposta, e poi ha fatto una preziosa lecture sul suo lavoro e le trasformazioni in atto, anche tecnologiche, che inevitabilmente sono direttamente relazionabili anche a un mutamento del linguaggio. Presentato, come sempre magistralmente, da Giovanna Calvenzi.
Stefano è un fotografo che stimo molto, e nei confronti del quale nutro un sincero affetto: era un paio d’anni che non ci si vedeva… anche questo è un motivo di ringraziamento nei confronti dell’organizzazione.

Stefano De Luigi by Efrem Raimondi

Non ho altro da dire. Solo da aggiungere la foto sotto, di Simone Letari, che ben descrive l’atmosfera: ehi! si può anche ridere.

E che ‘sta estate abbia una svolta.

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Milan Design Week

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Oh!! Non ha piovuto.
A memoria d’uomo, o almeno da quando il Salone Internazionale del Mobile si svolge a aprile, è la prima volta che c’è un sole così.
Ecco… a me personalmente non sarebbe cambiato niente: fisso in Statale, alias Università degli Studi di Milano. Per me un ritorno. E un conto ancora aperto che non si salderà mai.
Così ha voluto chi sovrintende… perché l’anno scorso non si sapeva bene cosa stessi facendo. E iPhone alla mano ho scorrazzato per il Fuorisalone, sostenuto da Michelangelo Giombini che segue i Progetti Speciali di INTERNI mag, e che ci ha creduto subito.
Poi visti i dati e l’utilità, questo percorso social in qualche modo è stato istituzionalizzato.
E mi sono trovato con il badge STAFF al collo.
E i badge hanno un peso specifico, che sul collo si sente.
Non sempre è un vantaggio.
Ho fatto in modo che pesasse il giusto, così la verità è che mi sono affezionato e mentre sto scrivendo lo indosso… questione di continuità.

Questo è un lavoro fotografico trasversale, un reportage vero, di quelli che di solito alcuni snobbano. E mi spiace per loro.
Ogni tanto invece, io ne avrei bisogno.
Perché è come resettare il cranio e azzerare certe abitudini: qui non si può nulla!
Non cambi la luce che c’è… non cambi l’ordine del programma… non interagisci mai direttamente con le persone, né con gli oggetti. L’unica cosa è aggrapparti al tuo sguardo, alla capacità di lettura che hai, chessò, di una conferenza, di uno spettacolo, di una installazione, di una poltrona incollata a una pedana.
Io ho fatto così: mi sono ricavato una nicchia e ho usato la visione periferica. Quella che si occupa del margine, con solo un’allerta sulla scena principale. Che se fosse stato il caso, c’ero.
Ma la mia attenzione vitale era dove la luce non c’era, cioè dove gli sguardi non focalizzano: stemperare la scena madre… due passi indietro ed è fatta. E la visione è altra.
È stato anche il festival del selfie… non avevo bisogno di dire niente, mi allontanavo, alzavo la macchina e scattavo nel mucchio, come con Fabio Novembre: era molto più interessante uscire dalla scena e godersi la via crucis. Con un Alessandro Mendini che guardava e sorrideva paterno.
Sono stato un fotografo silenzioso…
Anche quando si è trattato di Marina Abramovic… non le ho mai chiesto nulla, l’ho preceduta, ben piazzato davanti e a ritroso scattavo. Fino al palco. Ma siccome m’interessava e non mi bastava, l’ho letteralmente spiata. E quando l’ho vista allontanarsi prima che tutto iniziasse, sono andato a vedere: era tranquillamente sola in un corridoio.
È qui che serve il badge, non per fare il figo al bar di fronte.
Prima ho scattato e poi, ma dopo, le ho chiesto solo la cortesia di girare il viso.
Full flash diretto… paparazzata. Stop.
I Phone e Nikon.
Non ho mai ritratto la Abramovic. E questa non era la condizione.
Stessa cosa con Gillo Dorfles. Anzi a lui non ho chiesto proprio niente. L’ho solo puntato e ho aspettato… sapevo che avrei trovato quello che in quella circostanza aspettavo.
E volevo.
Niente ”venga di qui e si sposti di là”.  Tra l’altro era il suo 104° compleanno… grande cranio, grande presenza. Grandissimo senso della scena. L’ho ringraziato e salutato.
In entrambi i casi, questo non è fare ritratto. Malgrado siano due ritratti, Abramovic e Dorfles. Ambientati?
Questo è reportage dentro il caos mediatico.
Per ritrarre bisogna essere gli unici sulla scena armati di fotocamera e possibilità di eloquio… non in mezzo a centomila smartphone e compagnia assortita.  Questo almeno per me. Che ho bisogno del mio silenzio; che non metto mai musica sul set… successo un paio di volte… mica ho a che fare con le modelle. E ho bisogno di un’attenzione privilegiata. Inequivocabile.
Non è una considerazione di merito, è una constatazione: le immagini hanno habitat propri difficilmente intercambiabili.
E non si può far finta che tutto sia spalmabile ovunque. Non è così.
Ho anche inquadrato spesso i colleghi coi quali condividevo la scena.
Perché della scena noi eravamo parte.
Senza di noi non c’è scena.
Oggi, senza di noi non c’è nulla.
Anche se siamo ricattabili e deboli come non mai.
Mica si può credere all’accumulo di smartphonate e casualità iconografica assortita!
Chi lo professa fa della demagogia pro domo sua. O ignora e parla a vanvera.
Ciò che qui pubblico è un lavoro… una selezione delle 517 immagini che compongono Interni Photo Diaries 2014, per il fronte social di INTERNI, incluso il sito e in questo specifico usate da Danilo Signorello nei suoi articoli.
E che poi, ulteriore selezione, verranno pubblicate sul numero di giugno, cartaceo questa volta.
Tranne un’immagine che ho realizzato in concomitanza di un evento di Grazia Casa, per il quale mi sono spostato, tutte le altre sono realizzate tra le mura della Statale.
Salvo  tre immagini che ho ripreso per questo post, le altre sono esattamente quelle postate in corso d’opera: nessuna postproduzione. Di inedite ne ho aggiunte solo un paio circa.
Ogni tanto mi concedevo una pausa. Per fatti miei con un caffè e una meravigliosa Lucky, quelle di cui un giorno ci si potrebbe pentire.
E lì dov’ero, ritraevo ciò che mi faceva compagnia.
In religioso silenzio.

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GILLO DORFLES. IL GIORNO DEL SUO 104° COMPLEANNOmdw_3mdw_3bmdw_4mdw_4bmdw_5mdw_6MARINA ABRAMOVICmdw_8mdw_9mdw_10mdw_11mdw_12mdw_13mdw_14mdw_15mdw_16mdw_17mdw_18mdw_19mdw_20MENDINI-NOVEMBREmdw_22mdw_23mdw_24mdw_24bmdw_25mdw_26mdw_27MASSIMILIANO FUKSASmdw_29mdw_30mdw_31mdw_32mdw_33mdw_34mdw_35mdw_36mdw_37mdw_38mdw_38bmdw_39mdw_40mdw_41mdw_42mdw_43mdw_44mdw_45mdw_46mdw_48mdw_49mdw_47

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In queste immagini, tra gli altri:
Gillo Dorfles, Gilda Bojardi, Marina Abramovic, Michele Molè, Paola Navone, Ernesto Mauri, Philippe Daverio, Piero Lissoni, Patricia Urquiola, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Philippe Nigro, Fabio Novembre, Alessandro Mendini, Moritz Waldemeyer, Massimiliano Fuksas, Lia Bosch, Lavazza, Domus Academy, Cosentino Group, Audi, AgustaWestland, Expo Milano 2015, Designing China Exhibition, Università degli Studi Milano. Il cavo della corrente.

INTERNI – L’evoluzione dell’abitudine

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INTERNI
compie 60 anni.
È una delle cinque, sei riviste che l’Italia realmente esporta.
C’è una buona parte di addetti alla fotografia, a vario titolo, che pare non accorgersene: sono clamorosamente distratti dal tulle.
Après.

Il tema di questo redazionale è L’evoluzione dell’abitudine.
Quando mi è stato chiesto di interpretarlo sono rimasto lì, più o meno irrigidito sul posto a guardare delle mie immagini notturne, casualmente sul monitor. Alla rinfusa. Quasi alla rinfusa…
Ero al telefono, piena mattina ma precipitato nella notte del monitor.
La notte costringe a una scala percettiva diversa.
È un luogo. Non un tempo.
Nel tempo lento, proprio dell’evoluzione, noi realizziamo distintamente solo le fratture epocali. Che è ciò che ci tocca adesso.
Il buio di questa notte senza confine è l’habitat.
E l’abitudine è un ricordo. Quindi procediamo.
Il buio non spaventa i fotografi. A parte quel poco di luce alla quale ti puoi aggrappare, e che tu vedi distintamente, puoi sempre aggiungerne.
Quindi: la notte il luogo e il flash la luce. Che meglio del flash nessuna luce può squarciare.
Poi mentre chiacchieravo al telefono con Nadia Lionello, stylist di Interni, mi viene in mente la leggenda metropolitana della autostoppista fantasma… N. 1 in America, mica cotiche.
E distintamente ho un’immagine. Un po’ surreale… onirica la definisce meglio.
Che sono queste qui.

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Era una notte buia e tempestosa quella del 3 marzo. Un lunedì.
La strada che avevo in testa si trovava verso il confine svizzero.
In completa balìa di una cascata d’acqua dal pomeriggio: improponibile… non si poteva bagnare niente. E nessuno.
Alla mia amica scrittrice Rossella Rasulo avevo chiesto di interpretare la parte dell’autostoppista. Che era perfetta. Anche per il pallore derivato da una settimana di bronchite – i fotografi sono bastardi.
Ai pezzi, che poi erano prototipi, non ho chiesto niente, solo di esserci.
Quel lavoro si doveva fare quella sera. Non c’era alternativa… era la deadline redazionale. Non ci avevo neanche pensato a un’alternativa… viaggiare senza paracadute è una condizione che mi trascino da bambino. Mi fa sentire meglio.
O tutto o niente. O dentro o fuori.
Dicono che non sia un atteggiamento professionale…
Evidentemente non lo è.
Quindi ci siamo trovati a casa mia: Rossella, suo marito Mario – che è stato prezioso – la mia assistente Giulia Diegoli.
Erano più o meno le 20,30… Laura, mia moglie, ha fatto la cosa migliore, cioè stappare una bottiglia di bollicine. Così per cominciare.
Giulia e io siamo andati a fare un sopralluogo limitrofo… non c’era alternativa esotica possibile. Nessuna frontiera nelle vicinanze. Nessuna luna.
E abbiamo trovato un sottopasso in una zona periferica, tra l’industriale da un lato e la campagna dall’altro. Sopra le nostre teste, l’autostrada.
Il posto si prestava. Ho solo dovuto convincere Giulia che non saremmo morti investiti.
Del resto passava una macchina ogni mezz’ora. E a una velocità gestibile. Insomma era potabile.
Rientrati a casa sotto il diluvio, ci siamo uniti al vino, diventato rosso, e a cibarie di primo sostentamento. Strip, gatto onnivoro, era felice degli allunghi che gli arrivavano dagli ospiti: tutti gattofili!
Tu pensa il culo…
Poi basta. Poi diluvio o no bisognava andare. E siamo andati.
Tutti tranne Strip. Che comunque se ne guardava bene.
Una strana comitiva si aggira per le strade di Lombardia e stazione sotto un ponte autostradale.
Vero, non si usa così. Sembrava un fuori programma.
Io mi sono divertito.

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Il set, senza pioggia…

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Pezzi.
pg 102, Gina – sedia, design Jacopo Foggini per EDRA,
Tavolino – design Nendo per CAPPELLINI
pg 103, Zippo – divanetto ideato e prodotto da PEDRALI
pg 104, Wave – panca, design Nendo per DESALTO,
Anin – sgabello, design David Lopez per LIVING.
pg 105, Dotto – poltrona, design Ron Gilad per MOLTENI.

INTERNI mag N. 640 – Aprile 2014 – cioè adesso

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Rossella Rasulo, nel ruolo di autostoppista fantasma…
Stylist, Nadia Lionello,
Assistente fotografia, Giulia Diegoli

Fotocamera: Nikon D800 con Nikkor 24-70/2,8
Flash PROFOTO PRO-B3

Fuorisalone – FEEDING NEW IDEAS FOR THE CITY

Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

Fuorisalone adesso tra una settimana. Ma io non capisco…
Ma tra i fotografi che conosco e che hanno abitudine al Web, cioè lo usano dialetticamente, è possibile che siamo in quattro gatti a occuparci di design?
Magari io un po’ saltuariamente rispetto all’abitudine degli altri tre, ma comunque tutti con l’intento di mettere al centro il linguaggio, quello fotografico, che ritengo coincidere, per essere tale, con una visione più ampia che riguarda l’idea di mondo. Per quello che è e per quello che si auspica. Anche utopico magari.
Non è solo una dichiarazione estetica, nella fotografia che mi corrisponde e che amo vedere, c’è una forte determinazione ideologica.
Che è roba ben oltre la quisquilia politica.
E che è insofferente a ogni forma di omologazione.
Insomma amo le prese di posizione. E la contraddizione.
A volte, questa fotografia ha modo di manifestarsi con precisione, senza doversi occupare necessariamente di buoni sentimenti e sfiga assortita.
E anche quando se ne occupa, non è allusiva di niente: è nuda.
Amo il design anche per questo, perché spesso è nudo… molto ben esposto. E se si deve in qualche modo difendere, coprire dagli spifferi delle tendenze, indossa un cappotto nero, lungo, chessò… un Ferré d’altri tempi, non un accappatoio da sfilata buono per il motel.
Non esiste una fotografia di design, non una di moda, non una di ritratto e nemmeno una di paesaggio: esiste una fotografia e basta.
Che è quella alla quale guardare.
Ma è possibile che dopo i grandi, tipo Aldo Ballo, Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, la Cuchi White, solo per citarne alcuni che purtroppo non frequentano più – chiedo venia per quelli che manco ma vado di fretta – e che da soli erano in grado di generare attenzione, di far convergere giovani fotografi, ricerca critica, magazine e industria ogni volta che col design si cimentavano, possibile che si sia creato un vuoto? Possibile che ai giovani fotografi o aspiranti tali il design dica zero?
Io mi giro, ma non vedo un granché. A parte qualche eccezione mi tocca sempre guardare avanti.
È proprio così, e sono alla vigilia di questo Salone Internazionale del Mobile. Che anche quest’anno affronto con l’iPhone.
Diversamente dall’anno scorso non sarà mosso. Se non forse in qualche circostanza dettata dal caso.
Anche perché sarò stanziale, tra mura confortanti, quelle dell’Università degli Studi… la Statale di Milano.
A seguire conferenze, eventi, happening e altro che il programma offre. Sarà un reportage insomma. Forse più un backstage.
Forse non so.
Per capire bisogna cimentarsi, non sempre tutto è scritto.
E questo non è un copione.
Per INTERNI magazine, per Mondadori, con la convergenza di Expo 2015.
Tutto rigorosamente Web: Facebook, Twitter (pillole) Sito.
Come l’anno scorso, un social tris in tour de force…
Con sintesi cartacea poi, nel numero di giugno.
FEEDING NEW IDEAS FOR THE CITY, questo il tema.
Nutrire… alimentare se vogliamo.
Intanto ho iniziato con una preview, con cartoline dei lavori in corso.
Con un aperitivo. Leggero.

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L’anno scorso
http://blog.efremraimondi.it/milan-design-week-giu-la-cler/

Calendario eventi:
http://www.interni-events.com/

Fotocamera: iPhone 4S

Aggiornamento 5 aprile, sempre e solo PREVIEW:

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Fotocamera: iPhone 4S

Dimentico

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Così.
Io dimentico.
Dimentico di averti vista.
Dimentico di averti incontrata.
Dimentico di averti amata.
Dimentico.
Io ci provo.
Ma se dimentico la tua fotografia
solo così
io ti cancello.

Questa fotografia doveva essere nel post sulla neve, quella che ci tocca.
Io non so… l’ho dimenticata.
Ma la volevo. Non so dire perché, in fondo è solo una traccia.
Notturna per giunta.
Ma forse proprio per questo ne sentivo la mancanza.
Non cambia niente.
Ma per me cambia tutto.
Non mi sono dimenticato.
Non cancello niente.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamera iPhone 4s

L’Uno – Ohè sun chì

L’Uno – Ué son qui

Milano che giro in tram…
Mi metto in fondo, proprio all’altezza della salita posteriore e resto lì a guardare.
In piedi, spalle a tutti, faccia al finestrino centrale e mi riempio gli occhi di dettagli di vita che diversamente non coglierei.
È un po’ come spiare…
Tu guardi ma nessuno ti presta attenzione, nessuno si accorge di te.
Il tram passa e mi protegge.
Sferraglia, accelera e curva, frena e scuote la statica.
Sa che sono lì. Sa tutto e mi culla.
Un solo pensiero, leggero. Che rimane sul tram.
E che ritrovo quando risalgo.
Se non sei mai salito sull’1, non sai nulla di Milano.
Se non hai mai ascoltato Jannacci, non puoi capire Milano.

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Ph. Paolo Jannacci

http://www.youtube.com/watch?v=Fd9-VfAecxU

 

 

 

 

L’Uno – Marzo 2013.
iPhonephotography.
Stampa inkjet su carta Fuji Satin 270 g/mq.
40×40 cm, libera e firmata sul retro.

Prima Visione, collettiva – Galleria Bel Vedere, Milano.
Questa la nona edizione.
La prima alla quale partecipo… invitato da Chiara Spat, photo editor della rivista Grazia e membro del GRIN.
COMUNICATO STAMPA.pdf

Aggiornamento 15 gennaio
É qui che mi metto…

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